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Guerra e Costituzione – Convegno a Roma

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L’Italia, la Costituzione repubblicana e la guerra: dove stiamo andando?

Convegno della Associazione “Il Migliore” a Roma


 

Le nostre interviste a: Francesco Polcaro, Ennio Remondino, Ennio Bove e Giorgio Cremaschi.


 

locandina guerra e costituzioneintroduce: Vincenzo Calò,Ass.ne Culturale Il Migliore
intervengono:
Ennio Bove,Consulente Spazio Difesa
Giorgio Cremaschi,Forum Diritti Lavoro
Mauro Pili,Deputato Gruppo Misto
Vito Francesco Polcaro,CNR IAF Roma
Ennio Remondino,Giornalista Inviato RAI
Jacopo Venier,Direttore Libera Tv

– coordina
Giancluca Scagnetti,Giornalista

 


L’ITALIA, LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E LA GUERRA.

DOVE STIAMO ANDANDO?

di Spartaco Praghesi

 A seguito della brexit si sono andati ridefinendo i rapporti di forza e gli equilibri interni all’Unione europea. Infatti, con l’abbandono di Londra viene a mancare l’apporto fino a oggi fornito dalle forze armate più potenti dell’Europa occidentale. Un mutamento della situazione che si verifica in un momento nel quale tutta la fascia mediterranea sud-orientale attraversa una fase di estrema instabilità e dove la Turchia, paese aderente alla Nato, vive una drammatica crisi involutiva dal punto di vista delle istituzioni laiche e democratiche.

 La Francia – in grave sovraesposizione sul piano degli impegni militari oltremare – spinge in direzione di una difesa “comune” europea sempre più marcata: già al vertice dell’Alleanza atlantica di Varsavia dell’8 luglio erano state esercitate pressioni per ottenere dai Paesi membri un incremento della quota destinata agli stanziamenti per la funzione difesa ad almeno il 2% del PIL nazionale, mentre al successivo vertice trilaterale fra Italia, Francia e Germania che ha avuto luogo a Ventotene il 22 agosto, sia la cancelliera Merkel che il presidente Hollande hanno chiesto apertamente maggiori risorse per la difesa e la sicurezza europea, giungendo a parlare apertamente di una intelligence comune. In sostanza, più armi e più mezzi da destinare agli strumenti militari, che – a vario titolo e in varia misura – vengono attualmente impegnati in missioni al di fuori dei confini nazionali, missioni che non infrequentemente si configurano come di vero e proprio combattimento.

 Nell’anno 2016 per la funzione Difesa nel bilancio dello Stato italiano sono stati stanziati 22 miliardi di euro, pari all’1,2% del PIL nazionale; un incremento al 2% porterebbe alla cifra di circa 40 miliardi di euro; di questi stanziamenti all’incirca 15 miliardi sono stati destinati al finanziamento del programma di acquisizione da parte dell’Aeronautica militare italiana di 90 velivoli da combattimento F35 (JSF, Joint Strike Fighter). Attualmente sul territorio nazionale italiano insistono 113 basi militari classificate come “NATO” e 12 basi statunitensi.

 È fuori di dubbio che sia finita un’era, quel duraturo periodo di pace che abbiamo conosciuto e che si prolungava dalla fina della Seconda guerra mondiale. Adesso si è tornati al paradigma della sicurezza delle aggregazioni sociali ottenuta mediante il ricorso alla forza. «Prepariamoci alla guerra – ha affermato il generale Bertolini (già comandante in Afghanistan) in un’intervista rilasciata il 2 luglio -, la realtà non è quella raccontata nei talk-show. Il futuro non sarà roseo e bisognerà investire molto nel nostro strumento militare». L’Occidente è indebolito. Il futuro è incerto. Si parla sempre più frequentemente di qualcosa che in decenni non si è riusciti a costituire: l’Esercito europeo. Questo quando la tartassata Unione europea è più vacillante che mai. Sempre questa estate è giunto poi anche il contributo degli economisti: Jacques Attali ha lanciato la proposta di emissione di eurobond per finanziare l’Esercito europeo, perché «soltanto così avremo la crescita»; eppoi c’è l’emergenza immigrazione, quindi – sempre secondo Attali – la messa in comune delle risorse dei vari Paesi in un “sistema comune” avrebbe anche la funzione di permettere la gestione di questo fenomeno. Ma per il momento si va avanti con EUNAVFORMED, che vede protagoniste la Marina militare e la Guardia costiera italiane, un’operazione di cui il 20 giugno scorso il Consiglio dei ministri degli Esteri dei Paesi Ue ha prorogato fino al luglio del 2017; continuerà quindi il tentativo di controllo del flusso dei migranti, l’embargo sulle armi e l’addestramento della componente navale del costituendo nuovo strumento difensivo e di sicurezza libico.

Ma la Libia non è affatto un paese unito e, meno che mai, pacificato. Tuttavia, nel frattempo, senza troppi clamori o retorica propagandistica alla Gea della Garisonda, i militari italiani hanno preso posizione nella ex colonia. Si tratta di un ospedale da campo e di un contingente di paracadutisti inviati in sua protezione, forse il primo passo verso quei 5.000 soldati annunciati dal ministro della Difesa Pinotti (non va dimenticato che questo è il “Governo degli annunci”) e poi quasi subito smentiti dal titolare del dicastero degli Esteri Gentiloni Silveri, che si è trovato a dover gestire una situazione non certo facile.

 «Oggi il Mediterraneo è l’epicentro del disordine – aveva affermato Silveri in risposta a un’osservazione di Marta Dassù durante un convegno estivo il 14 giugno – da una situazione ipersovrana siamo passati a un’altra post-sovrana: che facciamo adesso degli attuali confini, ormai vecchi, fissati ai tempi di Sykes e Picot? Li modifichiamo arbitrariamente? E se sì, con quali risultati immediati?». No. È evidente che no. Non si possono cancellare degli stati sovrani con un tratto di penna. È un errore che nel passato è stato commesso a volte con leggerezza e che non va assolutamente ripetuto.

 Insomma, tutti affermano di essere alla ricerca di un nuovo ordine globale basato sulla pace e la cooperazione. Un obiettivo alquanto ambizioso che sarà difficile da conseguire almeno nel breve-medio periodo, anche alla luce del fatto che, al contrario, il disordine mondiale si va continuamente acuendo. Ma allora qual è la realtà verso la quale stiamo procedendo: il governo mondiale oppure la guerra globale?

 Per cercare di comprendere gli sviluppi futuri proviamo a porci l’interrogativo principe: se di guerra si tratta, contro quale nemico si combatte e si combatterà? Qual è davvero la minaccia? I russi o il terrorismo islamista? Oppure tutti e due?

 Al vertice Nato di Varsavia dell’8 luglio 2016 è stata sancita la volontà di frapporre uno “scudo” a Oriente tra la Russia di Putin e il resto dell’Europa. Il grosso dei militari che lo formeranno – oltre naturalmente agli americani – saranno tedeschi, danesi e norvegesi. I baltici e i polacchi hanno preteso dagli altri leader occidentali politicamente indeboliti (cioè Obama, Hollande, Cameron, Renzi e, financo, la Merkel) delle garanzie sull’applicazione dell’articolo 5. Tuttavia è già da qualche anno che in Europa stanno prendendo una forma sempre più concreta scenari di tipo “war” e questo lo si afferma esplicitamente nei documenti ufficiali dei Paesi aderenti alla Nato, dove si fa aperta menzione alla “non escludibile eventualità di un coinvolgimento in un confronto militare su vasta scala di tipo tradizionale”. Un conflitto che si configurerebbe come ibrido, dato che implicherebbe al tempo stesso operazioni convenzionali, conflittualità asimmetrica, attività nello spettro informativo e nel dominio cibernetico. È in applicazione il progetto CFI (Connected Forces Initiative), elaborato allo scopo di permettere una gestione della Nato nella delicata fase transitoria da una condizione di forte impegno reale in teatri di operazioni – in primo luogo l’Afghanistan – a una di prontezza operativa nel contesto dei nuovi scenari delineatisi in Europa, in particolare nel delicato settore costituito dalla cintura orientale dell’Alleanza atlantica, interessato dalla crisi ucraina in atto e dall’intervento militare russo in Crimea. Da questa nuova pianificazione, che vede la partecipazione ad esercitazioni militari di “partner” esterni come Ucraina e Georgia, discende anche lo sviluppo di una Very High Readiness Joint Task Force (VJTF) in seno alla preesistente Nato Response Force (NRF), cioè di un’unità a elevatissima prontezza operativa la cui costituzione è stata decisa nel corso del recente vertice Nato tenutosi in Galles. Si tratterà di una pedina operativa avente il suo comando in Europa centro-orientale in grado di essere dispiegata in tempi ridottissimi (massimo 2-5 giorni) in zone di combattimento localizzate alla periferia del territorio dei Paesi alleati, che a rotazione contribuiranno ad alimentarne di soldati i ranghi.

 Tutto questo avviene mentre gli americani si stanno disimpegnando dall’area mediterranea e mentre, parallelamente, prosegue la graduale riduzione degli impegni militari italiani nei teatri internazionali, con un tendenziale decremento del personale ivi impiegato (da 8-10.000 uomini a 5.000), seppure le missioni ancora in essere e quelle che verranno non sono certo poche (si pensi a quello che significherà per il Paese la crisi libica). Dunque, anche in Italia si va aprendo un periodo di radicali mutamenti, molte sono le cose che cambieranno aspetto nel prossimo futuro, a cominciare dal vertice decisionale cui verrà demandata la responsabilità di decidere i conflitti e farvi partecipare le Forze armate. Però, a questo punto si pone un problema di non facile soluzione: in una dimensione conflittuale come l’attuale come sarà possibile incorniciare nell’ambito degli stretti vincoli costituzionali stabiliti dall’articolo 11 operazioni connotabili sempre più come war?

 Al riguardo va rammentato che la Carta fondamentale della Repubblica stabilisce che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, di risulta consente esclusivamente impegni bellici in funzione meramente difensivi, tuttavia si tratta di un principio eroso dalla quasi totale caduta del pregiudizio ideologico sull’impiego dei militari in combattimento, mutamento di percezione ingenerato dalla persistente azione di imprinting che ha visto i mass-media svolgere un ruolo di primo piano.

 L’ipercompetizione economica, fenomeno proprio dell’attuale fase storica, condurrà verso una sempre più marcata verticalizzazione del sistema potere. Le centrali decisionali economico-finanziarie attive sulla scena globale detengono il primato e conseguentemente determinano le condizioni alle quali devono adeguarsi i governi dei paesi con cui si interfacciano. Il rafforzamento del margine di azione dei poteri di questi stessi esecutivi è un prerequisito della strategia complessiva in atto. In questo senso le riforme istituzionali che mirano all’instaurazione di sistemi presidenzialistici o di forme di cancellierato ad altro non rispondono se non a esigenze del capitalismo scaturite dalle turbolenze e dalle incertezze dei mercati mondiali, variabili – o, meglio, andrebbero definite come “costanti” – che per essere fronteggiate richiedono reazioni in tempi estremamente ristretti. Ma, a questo punto l’interrogativo da porsi è se questi cambiamenti epocali in Italia troveranno espressione anche attraverso la prerogativa a dichiarare uno stato di guerra per modificare condizioni preesistenti.

 Nell’Europe Economic Research pubblicata dalla banca d’affari JP Morgan il 28 maggio 2013 venne teorizzato proprio l’attacco alle costituzioni sociali come quella oggi in vigore in Italia. «I sistemi dei Paesi del Sud e, in particolare, le loro costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea: primo, esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; secondo, governi centrali deboli nei confronti delle regioni; terzo, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche». Il fine è dunque quello di giungere a un’iperstabilizzazione mediante la contestuale verticizzazione del potere – “un uomo solo al comando” a scapito della rappresentanza, quindi della democrazia – oltreché di ridurre le garanzie politiche.

 L’articolo 78 della Costituzione ha statuito che a fare questo sia il Parlamento – le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari) -, però, la decisione verrà rimessa dalla riforma Renzi-Boschi a una sostanziale minoranza formata dall’unico partito che si vedrà assegnati (dall’Italicum) il 54% dei seggi. Una miopia vera e propria che non aiuta a chiarire chi sarà – e come lo farà – a definire il concetto stesso di guerra in un contesto come quello attuale? Gli interventi militari di diverso tipo effettuati delle Forze armate della Repubblica andranno considerati interventi di “guerra”? E quale controllo eserciterà il Parlamento riformato? A rigore di logica su una materia così delicata dovrebbe essere incrementato il potere di controllo delle assemblee elettive direttamente rappresentative della volontà popolare, come è avvenuto quasi sempre fino a oggi con la Legge fondamentale della Repubblica informata dal principio stabilito dai costituenti, che vollero appunto affidare alle Camere la decisione su un evento così rilevante per la vita nazionale.

 Ma non solo, infatti, sulla base del dettato dell’articolo 87 spetta poi al Presidente della Repubblica dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere, egli infatti ha il comando delle Forze Armate e presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge. Ma, sulla base dell’articolo 83 della Costituzione riformata da Renzi il Capo dello Stato verrà eletto dal Parlamento in seduta comune (630 deputati e 100 senatori), con un evidente forte sbilanciamento in favore delle maggioranze del momento e quindi con una sostanziale riduzione delle garanzie. Non solo: dal settimo scrutinio saranno sufficienti tre quinti dei votanti, una maggioranza qualificata? Mica è detto, perché in caso di astensione concordata a livello politico – quindi lecito – potrebbe portare a una Presidenza della Repubblica di astensione.

 Per finire si soffermi l’attenzione su alcuni inquietanti interrogativi. Che sta succedendo in Italia? Sulla falsariga della sospensione di alcune garanzie del diritto in Francia come conseguenza dei recenti gravi atti terroristici degli islamisti, il nostro Paese viene fatto scivolare lungo il piano inclinato di uno strisciante stato di emergenza? Si pensi alle iniziative in materia di antiterrorismo intraprese dal Ministero dell’Interno con il coinvolgimento del Ministero della Difesa, in particolare la previsione la mobilitazione di reparti speciali militari per il potenziamento dell’azione di controllo del territorio direttamente da chi gestisce la pianificazione della gestione dell’Ordine pubblico, cioè il Viminale. In questo modo le special forces del Comsubin (Marina) e del Col Moschin (Esercito) potranno trovare impiego temporaneamente assumendo la qualifica di agenti di pubblica sicurezza e, dunque, effettuare anche perquisizioni e arresti. Ma la separazione tra forze armate e forze dell’ordine non rappresenta una distinzione basilare in qualsiasi democrazia?

 E ancora, il nuovo grande lotto per oltre 400.000 uniformi da combattimento di schema mimetico sia “continentale” che “desertico” a cosa prelude? Si deve arguire che le Forze armate italiane sono in overstress operativo e qualcuno sta pensando, in prospettiva, di reintrodurre gradualmente la coscrizione militare di leva per far fronte (per il momento, poi chissà) agli impegni interni di contrasto al fenomeno del terrorismo. In sostanza: l’Esercito non ce la fa più e i suoi vertici – ovviamente su input o comunque di concerto con l’attuale livello decisionale politico della Repubblica – hanno intenzione di coprire i vuoti di organico (per esempio dell’operazione “Strade sicure”) introducendo in servizio personale tratto dal mondo civile?

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